Sono passate tre settimane dal ritorno dalla Surkhandaya, questa regione dell’Uzbekistan a confine con il Tajikistan; mi sembra sia passata una vita intera, è così facile tornare alla propria quotidianità, a volte, soprattutto se è fatta di pasti vari e regolari, e di grotte che si raggiungono in un paio d’ore-o che ci parcheggi direttamente sopra.
Boysun Tau è la negazione di queste piccole sicurezze di tutti i giorni; lo straordinario monoclinale che sale a 30° per quasi duemila metri di altezza per poi precipitare per 600 metri descrive le pareti calcaree più suggestive dell’universo carso. Qui si aprono Ulugh Beg, Festivalnaja e Dark Star, nomi mitici per gli speleologi italiani. Di fronte poi sale un altro gigante su cui si è scavato un mito e 7 chilometri di meandro: Boy Bulock. Sono tutte lì, a portata di mano.
O almeno lo sembrano finchè non ti ritrovi a fare mezza giornata a bordo di uno scassatissimo Ural che deve fare acqua al radiatore ogni chilometro, per poi caricare viveri per un mese sopra agli asini e camminare fino a sera.
Un altro giorno poi lo passi a fare la spola fino al campo di Festivalnaja, mentre qualcuno si sta divertendo a girare attorno alla monoclinale per attrezzare la calata in parete per far salire i materiali; due giorni di marcia forzata e arrampicata libera.
Poi veniamo finalmente distribuiti ai campi, i materiali sono spartiti e si può iniziare ad andare in grotta. Sì, però, son già passati otto giorni e sei già stanco, la quota sui 3600 non aiuta; e per salire a Dark Star ogni volta devi fare un’ora di camminata e risalire la parete per 150 metri… ma i Russi marciano, alimentati da robuste colazioni a base di pasta e maionese, lardo e cipolle crude. Lo stomaco si ribella, ma tiri avanti se non altro per non dargli soddisfazione (ai Russi, chiaro…)
Sono passate così le tre settimane in Uzbekistan, tra nuove amicizie, marce massacranti, punte infinite e il continuo scontro con il concetto quasi militare di “campo speleo” che hanno i Russi.
Le foto parlano meglio di quanto abbia potuto fare io; ogni tanto sogno di essere ancora lì- poi mi sveglio urlando coperto di sudore e mi passa..
Ovviamente quel masso era proprio l’armo di partenza..sempre meglio dell’ometto di pietre da cui parte la calata per Festivalnaja..
bravi muli veder quelle foto me ga fatto invidia…
cio te son come el santo patrono de trieste san Giusto che i lo ga copà in canal coi sassi ligai intorno al collo!!!
Pippo…che sofistico che te son….giù per i pozzi lori usa la tecnica Dulfer…
…caro Giusto, dimmi che quel masso NON era un armo di partenza….!
Mitico Giusto….tutto el resto ‘desso sarà ‘na passegiata..